BIR HALIMA: villaggio italiano


Un villaggio agricolo italiano in Tunisia: Bir Halima

di Marinette Pendola

          Pubblicato in: Mestieri e professioni degli italiani di Tunisia, Tunisi, Ed. Finzi, 2003

         
       



La colonisation italienne est, pour l’avenir de la Tunisie, un grave danger […].
C’est donc pour le Gouvernement français un devoir de favoriser l’établissement en Tunisie d’un grand nombre de nos nationaux qui, par leur nombre et leur influence, empêcheront cette italianisation de notre belle colonie. Car il serait triste de voir la France s’imposer annuellement les charges importantes de l’occupation, pour n’être plus en fin de compte que la protectrice d’une colonie italienne .1

Questi sono i presupposti della colonizzazione agricola della Tunisia : da una parte, i colonizzatori sentono la necessità di fissare una popolazione rurale francese; dall’altra, un numero rilevante di braccianti, perlopiù siciliani, ha finito per assumere un ruolo indispensabile nello svolgimento quotidiano del lavoro dei campi, tendendo a radicarsi sempre più.
L’ossessione degli osservatori francesi che sostengono, in tutti i loro scritti, la necessità di contrapporre una colonizzazione delle terre da parte di piccoli proprietari francesi contro l’invasion italienne2 si mantiene viva nel tempo tanto più che l’esigenza di un radicamento francese nelle campagne trova scarso riscontro nella pratica. Innanzi tutto, sin dall’inizio del protettorato, la Tunisia attira soprattutto investitori – più che agricoltori – i quali considerano prioritaria la valorizzazione rapida delle terre. Pertanto tendono ad acquisire vasti territori da bonificare e coltivare successivamente. Tale lavoro viene affidato prevalentemente a contadini siciliani che possiedono capacità professionali sicure oltre che doti di estrema sobrietà e di resistenza alla fatica e al clima per molti versi simile a quello della regione di provenienza.

Au cours de l’année 1890, la Société de l’Enfida, plus audacieuse que l’Administration française, a tenté un essai de colonisation sur son domaine en faisant appel à une centaine de familles d’origine maltaise. Ce fut un échec.
En 1900, l’Administration française tentera, à Reyville, une seconde expérience de colonisation, mais, cette fois, avec des habitants de Pantelleria. Le travail tenace de ces petits colons italiens sur le domaine de l’Enfida permettra l’établissement de centres de colonisation français à Zaghouan, Zriba et Segermès.’3


Un esempio, fra i tanti, del tentativo di fissare coloni francesi sul territorio tunisino si ha con la costituzione della Société des Fermes françaises de Tunisie, creata da Jules Saurin nel 1899 con l’obiettivo di acquistare grandi proprietà terriere da suddividere in aziende di 50 fino ad un massimo di 100 ettari ognuna affidate esclusivamente a mezzadri francesi. Questi ultimi, con il tempo ed i risparmi effettuati negli anni della mezzadria, avrebbero potuto acquistare un’azienda propria in cui lavorare, da tramandare ai propri figli. Nonostante le facilitazioni, non sempre la risposta dei contadini francesi fu soddisfacente e spesso fu necessario far ricorso agli Italiani :

La Société, qui tient à cultiver quelques lots en jardins maraîchers […], n’a pu trouver de Français pour cet office : ce sont trois familles siciliennes qu’elle emploie à Saint-Cyprien.’4

Il materiale cartaceo giacente nelle biblioteche e negli archivi è ricco di esempi simili.
Di fatto, la colonizzazione francese della Tunisia non fu rurale, ma si avvalse dell’abbondante manodopera italiana per valorizzare il territorio5. Questa specificità tunisina si riscontra anche nei censimenti i quali, sebbene non sempre effettuati in modo rigoroso, sono pur tuttavia gli unici dati mediamente attendibili che possediamo. Nei primi quarant’anni del XX° secolo, la popolazione rurale francese aumenta debolmente. Alcune statistiche del 1937 riportano i seguenti dati riferiti all’agricoltura: tra i Francesi, vi sono 2 185 proprietari e 693 operai agricoli; fra gli Italiani, 2380 sono i proprietari e 1518 gli operai6. Per capire meglio come hanno potuto insediarsi comunità italiane un po’ dappertutto nelle campagne tunisine e come hanno vissuto e lavorato sulle quelle terre dando forme nuove al paesaggio, appare prioritario, in questa fase delle ricerche, dare spazio innanzitutto alle testimonianze dirette. Ripercorrere la storia di una comunità attraverso il vissuto dei suoi componenti può per certi versi apparire poco scientifico. Questo percorso, dando voce a chi non l’ha mai avuta, permette tuttavia di raccogliere le ultime preziose testimonianze attraverso cui individuare aspetti che sicuramente non emergono dai dati d’archivio, ma che, insieme a questi, concorrono a darci un quadro d’insieme più completo.

1 Abbé G. Dervin, ‘La Tunisie’, in La Société des Fermes françaises de Tunisie, Tunis, 1906, p. 33.
2 Ibidem
3 André e Raymond Didier, Un point d’histoire, comunicazione personale all’autrice.
4 H. Lorin, ‘Le Métayage par familles françaises en Tunisie, in La Société des Fermes françaises en Tunisie, cit., p. 52.
5 Per un’analisi approfondita di questo tema, si veda: Daniela Melfa, La Tunisia e gli agricoltori italiani: migrazioni, insediamento e trasformazione del territorio dal 1881 alla fine degli anni Venti, tesi di dottorato,Università di Siena, 2001.

6 Questi dati sono riferiti da Bruno Francolini, ‘La Tunisia e il lavoro italiana ’, in Bollettino della R. Società Geografica Italiana, serie VII, vol. IV, marzo-aprile 1939, p. 271.


1. Le origini

Bir Halima è un piccolo paese situato fra le città di El Fahs e Zaghouan, a 196 metri d’altitudine, ai piedi del monte Zaghouan. Si tratta quindi di una zona collinare e pedemontana. Fra la fine del XIX° secolo e l’inizio del XX° si stabiliscono su quel territorio un certo numero di braccianti siciliani che, fra gli anni Venti e Cinquanta, raggiungono il numero di circa 60 nuclei familiari. Provengono in grande maggioranza dalla Sicilia occidentale, in particolare da Trapani e dalla sua provincia (come i Bernardi, i Candela, i D’Amico (o Amico), gli Ilardi). Coloro che provengono dalla Sicilia orientale sono molto meno numerosi. Arrivano da Giarratana in provincia di Ragusa i Busso, i Distefano, i Messina e i Mulè. Le altre provenienze risultano insignificanti per numero: si tratta di una famiglia o due che provengono dallo stesso paese (come Paternò o Partinico). La provenienza dalla stessa zona di numerose famiglie conferma l’esistenza del meccanismo di richiamo: i primi nuclei stabilitisi nella zona sollecitano i parenti e i compaesani a raggiungerli. Questo sistema permette ai nuovi immigrati di trovare lavoro rapidamente, di affrontare una nuova realtà con il supporto di chi è già pienamente inserito e, di conseguenza di ricostituire in qualche modo le comunità d’origine. Per esempio, fra coloro che vengono da Giarratana, i Messina, i Mulè e i Distefano sono in qualche modo imparentati.
I primi anni di vita a Bir Halima sono estremamente duri per tutti i Siciliani che vi approdano. Fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento il paese non esiste ancora. La zona non è altro che una landa semidesertica in cui prevale una folta boscaglia costituita in massima parte da cespugli che in alcuni casi possono raggiungere i 5 – 6 metri di altezza1 e di alberi come i carrubi. Alcuni Francesi (Chevallard, Grémaud, Ducroquet, Roquerol) hanno acquistato in quella zona ampi territori. Ogni proprietà si aggira intorno ai 2000 – 3000 ettari e richiede grandi opere di disboscamento. 
E’ proprio questo genere di lavoro ad attirare i braccianti siciliani. 
Tutti hanno a disposizione alcuni appezzamenti di terreno da disboscare2
Mentre i cespugli piccoli sono perfettamente inutili, gli alberi e i grossi cespugli possono essere trasformati in carbone. Poiché la legna raccolta appartiene al bracciante, ai bordi dei terreni disboscati si formano file di carbonaie: la legna viene raggruppata a cono e ricoperta di terra battuta, con uno sfiatatoio in cima e alcuni sul diametro da cui far partire la fiamma che trasformerà la legna in carbone. Il processo è lento e delicato. Il fuoco deve operare la trasformazione senza incendiare la legna. Per questo motivo lo sfiatatoio centrale è piccolo: deve solo lasciare uscire il fumo ma non ossigenare troppo il fuoco che potrebbe trasformarsi in fiamma viva. Se una scintilla parte, la carbonaia s’incendia e il lavoro è perduto. Il compito di controllare il fumo che fuoriesce dallo sfiatatoio viene in genere affidato ai bambini3 che, alla minima variazione, interpellano gli adulti nel frattempo intenti a preparare altre carbonaie o a recuperare il carbone già formato. I bambini rappresentano una forza lavoro indispensabile: già dall’età di cinque - sei anni contribuiscono al lavoro degli adulti nel limite delle loro capacità. Sorvegliano le carbonaie, ammucchiano la legna; i più grandicelli si attivano accanto al padre nel lavoro di disboscamento. Di scuola nemmeno si parla. Anche se la scuola elementare viene aperta nel 1906, all’inizio pochi la frequentano. Mentre i maschietti stanno col padre nei campi, le femmine aiutano la madre occupandosi dei fratelli più piccoli e svolgendo tutte le attività casalinghe sin dalla più tenera età. Nemmeno per loro è prevista la scuola. A maggior ragione per loro. Se per i maschi, saper leggere e scrivere potrebbe rappresentare un vantaggio, per le femmine potrebbe invece essere rischioso in quanto permetterebbe loro di affrancarsi dalla tutela paterna (tale è infatti il timore degli adulti). Questo principio è saldamente incuneato nelle mentalità, e, con ogni probabilità, viene rafforzato dal fatto che la scuola è francese, perciò percepita come estremamente lontana dai propri parametri culturali4.
Quando i campi sono completamente liberi e non ancora utilizzati dal proprietario è consentito ai braccianti farne uso. In genere vengono seminate fave che hanno un ciclo vitale di cinque – sette mesi: seminate in ottobre – novembre, si raccolgono i baccelli ancora verdi in marzo – aprile. Una parte viene lasciata sulla pianta ad ingiallire fin verso maggio. Quando pianta e baccello sono secchi, si raccolgono e si effettua la spagliatura con bastoni lunghi (più tardi si useranno i muli) fino a liberare i legumi che vengono recuperati e conservati in sacchi di tela per l’inverno successivo. Ad occuparsi di questa coltivazione durante i mesi invernali sono le donne a cui spetta il compito della sarchiatura. Questo tipo di coltivazione viene effettuato esclusivamente per il consumo familiare. Il fatto di piantare fave anziché altri tipi di piante eduli ci permette di capire il tipo di clima e di suolo in cui viene praticata la coltivazione. Le fave hanno notevoli esigenze idriche a causa della grande quantità di materia verde da esse elaborate. Bir Halima ha un clima mediterraneo con precipitazioni primaverili e un suolo prevalentemente argilloso – calcareo adatto a questo tipo di coltivazione. Piantare fave conviene a tutti: ai contadini che possono così fare provviste per l’inverno evitando fenomeni di denutrizione assai frequenti all’epoca, ai proprietari in quanto le fave, come tutte le leguminose contribuiscono ad arricchire il terreno di azoto.
Le condizioni di vita di questi braccianti sono migliori rispetto al paese d’origine, ma sono comunque al limite della sussistenza. L’unica loro produzione è il carbone che viene venduto a Tunisi: i contadini si uniscono per organizzare un convoglio e partire insieme dato che la zona di Djebel Oust è infestata di banditi. 
Ciò permette anche di alleggerire le spese di soggiorno nella capitale che vengono suddivise fra tutti5 . In genere questi carbonai non sono proprietari del carretto che serve a trasportare la merce. A Bir Halima, i carretti vengono presi a noleggio, fra gli altri, dai Bernardi che ne possiedono due, i quali ricevono come compenso una percentuale della merce da trasportare. Se si considera che un carretto costa 300 Fr. nel 19066, si può dire che le condizioni economiche di quella famiglia sono rapidamente migliorate rispetto ad altre. Un carico di carbone può arrivare intorno ai 5 – 6 quintali, il ricavato della vendita supera difficilmente i 5 – 6 Fr., con i quali si pagano il dazio d’entrata a Bab Alleoua, le spese di pernottamento (0,50 Fr.), e si comprano generi di prima necessità: farina, zucchero (che costa 0,50 Fr. al chilo), rarissimamente il caffè che ha un costo di 3 Fr. al chilo.
Quando il margine di guadagno è un po’ più elevato, si acquista farina di prima qualità, comunemente detta farina di Francia, altrimenti ci si accontenta di una seconda scelta in cui sono presenti maggiori percentuali di crusca e di tipi di grani di qualità inferiore rispetto a quello duro. Probabilmente alle merci sopra elencate si aggiunge l’olio. Per il resto ci si adatta con quello che offre la natura: erbe dall’autunno alla primavera, cipolle e fave coltivate intorno a casa, lumache raccolte dopo le piogge, raramente un po’ di selvaggina catturata con laccioli.
I braccianti non si limitano all’opera di disboscamento ma si prestano, quando capita, anche a svolgere mansioni di sterratori nelle migliorie delle proprietà francesi o nella costruzione di edifici di pubblica utilità. Questi tipi di lavori sono ambiti perché più redditizi. Nelle note di pagamento per la costruzione della chiesa, datate gennaio 1909, emergono i costi della manodopera differenziata a seconda dell’appartenenza etnica: gli operai italiani sono pagati 3 Fr. al giorno se sono esperti, oppure 2 Fr. 75; i lavoratori tunisini vengono indifferentemente pagati 1 Fr. 20. La capacità di adattarsi a qualsiasi lavoro oltre che l’estrema sobrietà di queste persone fa sì che, nonostante la modestia del reddito, sia possibile giungere all’acquisto di un pezzetto di terra. Ma ciò avviene in tempi piuttosto lunghi. 
Andrea Bernardi è fra i primi ad acquistare 6 ettari di terreno nel 1914 pagandoli 1000 Fr. l’ettaro. Fra il 1918 e il 1942 quasi tutti i braccianti riescono a comprare una piccola proprietà, non sempre a Bir Halima, com’è il caso degli Ilardi che, dopo il 1925, acquistano cinque ferme (una per ognuno dei quattro fratelli più una più grande per il padre) a Sidi Bel Asis presso Medjez el Bab. Molto probabilmente quasi tutti i neo - proprietari si avvalgono in un primo momento, come in altre zone della Tunisia, di contratti di enzel7, com’è il caso di coloro che approfittano della lottizzazione della proprietà Roquerol a 2 Fr 50 l’ettaro per poter accedere ad un terreno da coltivare. Dal momento in cui avviene la presa di possesso della terra, il paesaggio comincia lentamente a modificarsi. Le proprietà, essendo tutte di piccola estensione poiché non superano i 10 ettari, non consentono coltivazioni estensive. Vengono innanzitutto bonificati i campi dai sassi e dal pietrisco, poi vengono piantati ulivi, vigne, alberi da frutto (in particolare agrumi), tutte piante che richiedono un saper fare specifico: le vigne, perché necessitano di cure particolari e costanti, come gli alberi da frutto, e la cui redditività inizia già dal secondo anno dall’impianto; gli ulivi, pur più rustici nella loro adattabilità, hanno tuttavia una redditività a lungo termine (in media una decina d’anni). Per questo motivo, si preferisce la pluricoltura che permette alla famiglia di vivere rapidamente dei prodotti della propria terra. Naturalmente, fra le varie semine, oltre all’orto vicino casa, non può mancare il grano che permette, nel giro di una stagione, di affrancarsi, data la dieta a base di grandi quantità di farinacei, dall’obbligo di acquisto di importanti quantità di farina. Non è un caso che a Bir Halima possano vivere due mugnai: Bartolo Distefano che possiede anche un pezzo di terra e che quindi svolge due attività e Carmelo Longo che rivenderà successivamente il mulino a Rosario Messina.

1 Si tratta di: Olea europea var.oleaster (olivastro), Pistacia lentiscus (lentisco), Ceratonia siliqua (carrubo), Arbustus unedo (corbezzolo), Phillyrea angustifolia, Rhamnus alaternus (alaterno), Cistus (cisto), Rhus (sommacco), Rosmarinus officinalis (rosmarino).
2 O boscagliare come usano dire nel loro linguaggio.
3 Nel 1903 vivono a Bir Halima 105 bambini di età inferiore ai 12 anni. Dati riportati da F. Dornier, Les Catholiques en Tunisie au fil des ans, Tunisi, 2000, p. 319.
4 In una situazione analoga, a Draa-ben-Jouder, una suora che dirige una piccola scuola lamenta che “les petites siciliennes ne sont pas du tout régulières”. F. Dornier, op.cit., p. 318.
5 V. M. Pendola, ‘Da Sciacca a Zaghouan : l’itinerario di una famiglia contadina ‘, in Memorie italiane di Tunisia, Tunisi, 2000, pp.157-158.
6 Dati riportati da Paul Leroy-Beaulieu, ‘L’Algérie et la Tunisie ‘, in La Société des Fermes françaises, cit., p. 26
7 Si tratta di ‘una forma di enfiteusi perpetua e fissa, con la quale il locatario (utilista), mediante il pagamento di un canone fisso, si assicura il perpetuo godimento del fondo e dei miglioramenti che in esso sono stati compiuti.’ E. Castellani, La Tunisia. Agricoltura e colonizzazione , Firenze, 1942, p.67. per una trattazione completa sui diversi tipi di contratti agrari, V. Daniela Melfa, Op. cit., p. 56-59.


2. Strutture familiari e strutture abitative

Il miglioramento delle condizioni di vita non si evidenzia tanto dalla produzione in proprio del grano ma dal fatto che pian piano scompaiono le capanne di fango e paglia, sostituite dalle prime case in muratura. Casette bianche con tegole rosse e imposte azzurre, nello stile che poi caratterizzerà la Tunisia. Bir Halima non possiede la struttura urbanistica di un paese. A segnare in qualche modo il centro è la chiesa dedicata a San Giuseppe1, la cui costruzione fu terminata nel 1909 grazie all’impegno del francese Ducroquet. 
La chiesa rimane sede parrocchiale fino al 19222 quando passa alle dipendenze della parrocchia di Zaghouan. L’edificio è costruito a circa un centinaio di metri dalla strada principale in modo da formare uno spazio – piazza. Alla sua sinistra si erge un hangar agricolo, un capannone tozzo con un grande portone appartenente ai Bernardi. E’ il luogo in cui si svolgono le feste: balli e rinfreschi per occasioni particolari come i matrimoni. Non facendo parrocchia dal 1922, il servizio religioso viene garantito ogni quindici giorni, il sabato. In circostanze particolari (matrimoni, funerali, feste religiose speciali come San Giuseppe) il parroco si sposta appositamente e, benché sia francese, spesso si rivolge all’assemblea in italiano. Vivono infatti stabilmente a Bir Halima solo quattro famiglie francesi contro una sessantina di famiglie italiane. A garantire la formazione religiosa dei bambini è una catechista francese, Madame Schorter. Oltre la chiesa, vi sono poche altre strutture pubbliche che danno all’agglomerato l’aspetto di paese: sulla strada è collocata la fontana, punto di riferimento per tutti, anche se molti hanno un pozzo accanto all’abitazione. Oltre la strada, quasi di fronte alla chiesa è stata costruita la scuola francese nel 1906 i cui edifici contengono anche un ufficio postale aperto nel 1908. I bambini siciliani non frequentano le scuole italiane che sono concentrate nella capitale, ma, quando possono, seguono le lezioni nella scuola locale, nei primi anni non oltre l’età di otto – nove anni, poi, difficilmente oltre i dodici anni, ad ogni modo fino all’ultima classe delle elementari. Pochi proseguono gli studi. Lungo la strada principale, sono state edificate alcune case, ma quasi tutte sono sparpagliate nella campagna circostante, spesso circondate da alberi per cui appare a volte difficile scorgerle. Al di là della scuola, dell’ ufficio postale e della chiesa, non vi sono altre strutture pubbliche. Solo dopo la seconda guerra mondiale, in una delle case lungo la strada nel nucleo centrale del paese, verrà istituito un dispensaire che dipenderà dall’ospedale di Zaghouan e che sarà aperto solo alcuni giorni alla settimana.
La struttura delle singole case è nel complesso semplice: due stanze di cui una è utilizzata come soggiorno – pranzo comprendente tavolo, sedie e credenza, e un’altra con funzione di camera da letto. Molto spesso, la cucina è una stanza esterna che si apre sul cortile come la casa stessa. Per preparare i pasti, è necessario uscire sulla corte per recarsi nella stanza cucina che contiene tutti gli strumenti per la preparazione del cibo. La scelta di collocare la cucina fuori dalla casa è con ogni probabilità determinata dal fatto che si cucina a legna: questo sistema permette dunque di evitare l’affumicamento dell’intera casa. Successivamente, quando le tecniche di cottura cambiano, in molti casi, la cucina diventa parte integrante dell’abitazione per cui non sarà più necessario uscire per poter preparare i pasti. I pavimenti delle case sono generalmente solo di cemento. Qualche rara volta, se le condizioni della famiglia lo consentono, compaiono le zilise, semplici mattonelle di graniglia, com’è in uso negli anni Trenta.
In genere su un’unica corte si aprono più case: i parenti (genitori e figli sposati, oppure fratelli) si raggruppano e formano un unico centro abitativo. In Tunisia vengono ricreate le strutture familiari esistenti in Sicilia3. Un po’ dappertutto prevale la regola neolocale: il nucleo familiare, costituito dai genitori e dai figli piccoli, non vive con la famiglia allargata, ma in una casa indipendente4. In campagna, ed in particolare a Bir Halima, prevale la struttura patriarcale, forse perché il sacrificio dell’acquisto del podere è tale che non è possibile disperdere energie, perlomeno in un primo momento. E’ predominante in genere la regola cosiddetta patrivirilocale, in quanto, all’atto del matrimonio, la sposa si trasferisce presso la famiglia del marito. Ma l’antica regola neolocale, così radicata nella cultura siciliana, finisce in qualche modo per riapparire nelle strutture abitative. Per salvaguardare l’intimità del nuovo nucleo famigliare, la giovane coppia non vive nella stessa casa dei genitori, ma in una casa contigua. In questo modo, ogni figlio sposato possiede la propria abitazione che gestisce autonomamente. Si verificano casi in cui le abitazioni dei figli sono costruite in cerchio e la corte diventa come la piazzetta di un borgo. A volte, le case sono addossate le une alle altre, oppure, per una maggiore indipendenza, hanno in comune la parte posteriore in modo che le porte si aprano una a sud e l’altra a nord. Anche quando si tratta di fratelli, si crea lo stesso tipo di struttura: in questo caso, non solo la casa, ma anche gli annessi sono indipendenti. Capita dunque, ad esempio, che in un gruppo abitativo ci siano tante stalle quanti i fratelli che vi abitano. Di fatto i parenti vivono accanto gli uni agli altri, ma non sempre condividono lavoro ed interessi economici. La condivisione degli spazi presuppone la necessità di mantenere relazioni di tipo clanico in una realtà che per molti versi si percepisce ancora come estranea e in qualche modo minacciosa. E’ anche vero che a Bir Halima si verificano fin verso gli anni Trenta fatti di sangue che trovano origine con ogni probabilità in antiche diatribe : con la partenza per la Tunisia, non si spezzano i “debiti di sangue” contratti nel passato in Sicilia e i regolamenti di conti si risolvono spesso in modo tragico5.


1 Santo fra i più importanti nell’universo religioso dei Siciliani che lo festeggiano regolarmente ogni 19 marzo.
2 I parroci che si sono succeduti a Bir Halima sono: padre Muniglia che arriva nel 1909 e viene trasferito a Sousse nel 1916, padre Di Stefano che partirà per Monastir nel 1922. Gli altri due parroci, padre Van den Haak (soprannominato Turidduzzu) e successivamente padre Criscuolo, vivono stabilmente a Zaghouan.
3 Per un’analisi della situazione rurale in Sicilia, v. Ida Fazio, La famiglia e le donne, sito:http://www.cliomediaofficina.it/7lezionionline . Per il rapporto fra struttura famigliare e organizzazione dello spazio abitativo, v. Raffaella Sarti, Vita di casa. Abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna, Roma – Bari, Laterza, 1999, in particolare, per quanto riguarda la Sicilia, i capitoli II – III.
4 Esempi concreti di tale sistema si hanno soprattutto nei quartieri cittadini.
5 I discendenti di coloro che hanno subito tali fatti sono oggi spesso reticenti, preferendo rimuovere totalmente tali episodi .


3. Attività lavorative

Intorno agli anni Quaranta, la popolazione di Bir Halima è costituita, per la maggior parte, da contadini che lentamente diventano quasi tutti piccoli proprietari. Solo una minoranza mantiene lo statuto di bracciante. Altri che non hanno potuto sopportare lo sforzo sovrumano che richiedeva il raggiungimento di una situazione accettabile, abbandonano le campagne e vanno ad ingrossare le fila del proletariato cittadino. In generale comunque, quasi tutti i braccianti riescono, nell’arco di una trentina d’anni, a realizzare

quella proprietà contadina che in patria era così difficilmente raggiungibile; e incidentalmente [infrangono] una serie di miti, dimostrando di saper applicare facilmente delle radicali innovazioni agricole e di poter creare floride fattorie (…)” 6

Una comunità che sia anche solo minimamente strutturata contiene al suo interno una molteplicità di figure professionali che la supportano. La comunità di Bir Halima non è formata solo da contadini, anche se questi ultimi sono in grado di svolgere quasi tutte le mansioni specialistiche, come l’innesto, la potatura, la vendemmia, la vinificazione, la castrazione degli animali, oltre che lavori di muratura non complessi. Sebbene siano in grado di adattarsi a più di una mansione e di risolvere da soli anche i problemi relativi agli attrezzi che utilizzano, è necessario a volte rivolgersi ad una figura professionale specifica. Per questo motivo, vivono a Bir Halima due fabbri. 
Poi, quando l’agricoltura si modernizza, compare il meccanico che, pur continuando a fare il contadino nei propri campi, lavora soprattutto nelle fattorie francesi ma che, all’occasione, si adopera per i propri concittadini, anche se più raramente poiché la meccanizzazione avviene lentamente e in modo non generalizzato. Vive in paese anche una famiglia di muratori a cui vengono affidati i lavori più complessi, mentre in genere si svolgono autonomamente quelli che non richiedono conoscenze professionali particolari.
Fra i mestieri legati all’alimentazione, sono presenti due mugnai ma mancano i fornai : il pane viene cotto nel forno che ogni famiglia – o gruppo familiare - possiede accanto alla casa. Anche quando la casa non è di proprietà, fra gli annessi è sempre compreso il forno, considerato come parte indispensabile della casa. Esiste una piccola bottega – tabaccheria gestita da Nicolò Ilardi, ma appartenente al postino (francese) del luogo, poiché non è possibile per un non francese ottenere la licenza della vendita di tabacco7. In bottega, si comprano poche cose: sale, zucchero, caffè, tè, olio prima che cominci la produzione propria, tabacco che è l’unico genere voluttuario che questi contadini si concedono. In realtà tutte le famiglie vivono in regime di autosufficienza. L’orto dietro casa e il frutteto forniscono quanto serve. Tutti possiedono un piccolo pollaio che dà uova e carne. Molti allevano un maiale che ha il pregio di nutrirsi di tutti gli avanzi e quindi di avere un costo di mantenimento quasi nullo.
Pochi sono i mestieri che potremmo definire “di servizio”. Primo fra tutti è l’indispensabile calzolaio. La sarta, Benedetta Naro, tiene in casa anche una piccola bottega di stoffe, non disdegnando di vendere nel contempo il tè e il caffè insieme ai tessuti. Altre due sarte si stabiliscono successivamente in paese. Non esiste l’ostetrica. Quando una donna deve partorire, si corre a Zaghouan a chiamare una ostetrica francese, mentre le vicine collaborano come meglio sanno. Alcune vedove sono impiegate presso le famiglie francesi come personale di servizio, o fanno semplicemente le lavandaie presso queste stesse famiglie oppure presso i maestri che risiedono accanto alla scuola.
Nello svolgimento delle attività quotidiane, i compiti sono ben divisi fra uomini e donne: ci sono lavori considerati maschili e altri femminili. Gli uomini si occupano dei campi: arare, zappare, seminare, potare, innestare, raccogliere, vinificare, eventualmente vendere o comprare e quindi frequentare qualche volta i mercati, curare gli attrezzi e le strutture della proprietà. Alle donne spettano i lavori dell’orto nella loro totalità (zappare, seminare, sarchiare, raccogliere). Devono inoltre provvedere al pollaio e al porcile, preoccuparsi degli animali in genere, dal portare i muli all’abbeveratoio fino a chiudere la stalla la notte. Nutrire e curare gli animali è loro compito, come del resto occuparsi interamente delle persone che vivono in casa, compresi gli anziani e gli ammalati che non possono provvedere a se stessi in modo autonomo Per questo motivo, molte di loro sono esperte nel riconoscere le erbe curative e nell’applicare trattamenti terapeutici naturali. E’ ancora compito delle donne occuparsi dell’ordine e della pulizia degli ambienti, procurarsi l’acqua necessaria andando alla fontana o al pozzo più vicino, preparare il cibo, pane compreso. Questo ultimo lavoro richiede una buona mezza giornata, dall’impasto fino alla preparazione del forno e alla cottura finale. Per questo motivo il pane viene fatto una volta alla settimana, come non più di una volta alla settimana si fa il bucato. Inoltre spetta alle donne preoccuparsi dell’abbigliamento cucendo, rammendando e riadattando abiti vecchi per nuovi usi. Il ricorso alla sarta è eccezionale e limitato a lavori complessi. Alle ragazze viene infine richiesto di preoccuparsi del proprio corredo appena sono in grado di ricamare e cucire, ma tale attività viene svolta nei ritagli di tempo. 
Le donne di Bir Halima hanno fama nelle zone circostanti di essere particolarmente attente all’igiene della casa e molto competenti nella preparazione del forno a legna di cui conoscono tutte le tecniche e le astuzie per la riuscita ottimale di biscotti, scacciate, pizze, oltre che ovviamente del pane. A parte qualche lieve variazione nelle singole famiglie, più o meno è questa la suddivisione dei lavori. A ben vedere, i compiti assegnati alle donne sono forse meno faticosi considerati separatamente, ma la quantità di lavoro che grava su di loro è di gran lunga superiore rispetto a quanto fanno gli uomini. Questo spiega perché sin dalla più tenera età le bambine svolgono mansioni come accudire i fratellini, stirare, cucinare, pulire la casa e che si consideri inutile, oltre che dannoso per l’organizzazione familiare, mandarle a scuola.

6 D. Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, Roma – Bari, Laterza, 6° edizione, 2000, pp. 683-684.

7 Successivamente la tabaccheria apparterrà ad Andrea Spitale che si è naturalizzato.


4. Cultura e identità
Nonostante la diversa provenienza provinciale, esiste fra tutti i gli abitanti di Bir Halima una coesione identitaria molto forte. L’appartenenza alla stessa regione, l’uso della stessa lingua e delle stesse consuetudini fa sì che con il tempo si sia formata una comunità fortemente aggregata1 . Con ogni probabilità, inizialmente, le differenze erano piuttosto marcate. I Modicani e i Ragusani venivano distinti dagli altri, ad esempio, perché avevano una parlata e modi diversi rispetto alla maggioranza che proveniva dalla Sicilia occidentale. Anche la lingua ha subito processi di aggregazione uniformandosi su sinonimi comunemente accettati a scapito di altri che hanno perso valore, anche se è rimasta in qualche modo più legata alle origini rispetto a quella di altri parlanti più aperti verso nuove esperienze o meno aggregati e la cui parlata si è evoluta rapidamente verso un linguaggio ibrido che è diventato il siculo - tunisino.
A fare di queste famiglie sparpagliate nella campagna e di diversa origine un’unica comunità è in gran parte anche la matrice rurale. La cultura di fondo è identica e a rinsaldarla provvedono gesti e rituali comuni: stesso tipo di alimentazione, stesso modo di vivere i rapporti familiari, stessi rituali magici a scopo terapeutico. Anche i matrimoni contribuiscono a saldare fra loro le varie famiglie e finiscono per amalgamare le diverse origini provinciali, anche se, in linea di massima, sono spesso endogamici. Molti matrimoni avvengono fra cugini di primo grado, alcuni con cugini di secondo grado, soprattutto nei primi tempi. Infine ci sono matrimoni fra compaesani (come quello fra Giuseppina Messina e Giuseppe Distefano, entrambi di Giarratana) oppure fra persone di diversa provenienza (come Francesca Mulè di Giarratana e Alberto Minaudo di Trapani): in quest’ultimo caso, si tratta di appartenenti alla generazione nata sul luogo quindi già profondamente radicata sul territorio e perciò con un senso di appartenenza piuttosto debole rispetto alle origini.
Anche il calendario contadino rispetta gli stessi cicli: quelli ovviamente dettati dal clima e dalle esigenze colturali, ma anche quello dell’uccisione del maiale che viene effettuata a dicembre, per arricchire la dieta natalizia con apporti carnei ma soprattutto per rispettare antiche regole igieniche sul consumo di carne grassa in periodo invernale.
Se Natale e Pasqua sono periodi di grandi festività familiari, un’altra festa accomuna tutti: San Giuseppe. Si tratta di una festa ad alta partecipazione comunitaria: tutti infatti collaborano con la famiglia organizzatrice contribuendo economicamente o con doni di natura alimentare (in particolare uova, farina, olio, zucchero). Chi decide di organizzare un “San Giuseppe”, lo fa per una promessa particolare fatta al santo o per grazia ricevuta. I partecipanti alla recita sono tre e vengono scelti fra i membri più poveri della comunità: un uomo anziano che rappresenta San Giuseppe, una fanciulla molto giovane (a garanzia di verginità) per la Madonna, e un bambino sotto i dieci anni per Gesù. Il rituale inizia verso le undici del mattino quando arrivano i tre “santi” accompagnati da tutta la comunità che li segue in una processione informale. Si fermano davanti alla porta chiusa della casa in cui è organizzata la festa e bussano. Il dialogo che segue fra i personaggi si ripete identico di anno in anno:
  • Chi è?
  • Siamo tre poveri orfanelli
  • Non c’è posto
I “santi” fanno il giro della casa e bussano una seconda volta. Si ripetono le stesse parole con lo stesso risultato. Al terzo giro, il dialogo cambia:
  • Chi è?
  • Siamo Gesù, Giuseppe e Maria
  • Entrate tutti in casa mia
Le porte si spalancano fra le manifestazioni di gioia dei presenti, i “santi” vengono invitati ad entrare. Si siedono a tavola e vengono serviti di ogni portata (se ne contano in media una quarantina, tutte rigorosamente vegetariane).Tutto ciò che non viene consumato dai “santi” è distribuito alla folla che rimane fuori dalla porta. Alla fine della giornata, tutto quello che avanza verrà offerto ai tre “santi”. Il rituale, con pochissime variazioni, si ripete di anno in anno, sempre uguale a se stesso. Se in Sicilia si è probabilmente evoluto verso forme più complesse, in Tunisia rimane fedele alla sua lontana origine. Al di là del fatto strettamente religioso, questa festa possiede un forte potere aggregante proprio perché coinvolge tutta la comunità i cui membri partecipano attivamente alla sua organizzazione e alla sua buona riuscita. Ultimo fatto che accomuna tutti i partecipanti: alla fine della festa vengono distribuiti dei panini benedetti a forma di stella, ciambelline o cestini, tutti riccamente decorati, i famosi “pani di San Giuseppe” che hanno il potere di far cessare immediatamente i temporali quando se ne spezza un po’, lo si butta fuori sotto l’acqua scrosciante accompagnandolo da preghiere particolari.
Comuni a tutti i membri della comunità sono i rituali magici a scopo protettivo e terapeutico. La medicina moderna, con il suo carattere scientifico, ha scarsa presa su persone che considerano l’esistenza umana in stretto rapporto con gli eventi naturali, anzi spesso in balia di forze incontrollabili perché invisibili e sconosciute. L’essere umano nella sua fragilità può esserne travolto se non compie una serie di gesti e di rituali propiziatori. Sin dalla nascita, è necessario attivare modalità protettive. Se la casa, la culla, lo stesso bambino sono salvaguardati da crocefissi o immagini della Madonna, quando si lascia la propria abitazione, forze misteriose possono impossessarsi dell’anima del piccolo e farlo deperire. Non si adagia un neonato su un letto estraneo se non accompagnato da un effetto personale del padre (sciarpa, berretto, giacca) a sua protezione. Se è ancora allattato al seno, è indispensabile far cadere alcune gocce di latte materno sul cuscino che lo accoglierà. Presenze invisibili invadono lo spazio intorno, presenze particolarmente attratte dai bambini con cui “si divertono” stancandoli al punto da farli ammalare. Esseri invisibili che bisogna dunque neutralizzare, ma non spaventare o urtare in nessun modo. Perciò non si sbattono le porte, non si buttano violentemente oggetti o acqua, dato che questi esseri occulti potrebbero reagire in modo improvviso e spaventoso. Poiché non assumono mai forma visibili, nessuno può vantarsi di averli visti. Per ogni evenienza, quando si uccide un insetto o un serpente, si recita la formula: “Ti uccido come animale e se non sei animale, sparisci!”. Queste presenze non sono altro che anime di morti vaganti all’eterna ricerca di pace, i cui spazi sono invasi dai viventi venuti da mondi lontani per appropriarsi dei luoghi. Da questa certezza nasce il profondo rispetto per queste entità.
I morti della famiglia sono invece spiriti buoni e protettori che portano doni ai bambini. La sera del primo novembre, in ogni casa di Bir Halima, ma anche di Sicilia, e dei Siciliani del mondo intero, i bambini mettono un piatto vuoto sul tavolo prima di andare a dormire. L’indomani lo troveranno colmo di cose buone. Povere cose nelle case di Bir Halima: qualche noce, qualche castagna, un paio di caramelle, forse un melograno e, per i più fortunati, un frutto di Martorana.
Se pericoli costanti vengono dall’aldilà, minacce di origine terrena accompagnano l’individuo continuamente, la più preoccupante delle quali è rappresentata dall’invidia che si manifesta tramite il malocchio. Per neutralizzarlo è indispensabile portare su di sé qualcosa di rosso poiché questo colore ha il potere di rimandare al mittente qualsiasi onda negativa. Se questa precauzione si rivela insufficiente, si provvede a togliere il malocchio (che si manifesta con una cefalea improvvisa) ponendo sul capo dell’ammalato un piatto pieno d’acqua, in cui si mettono sale e tre gocce di olio recitando sottovoce (poiché sono segrete) preghiere particolari. Rituali simili servono per curare il colpo di calore, il trauma provocato da una paura improvvisa, il mal di pancia dei bambini. Infine un rituale particolare che deve essere svolto ad un crocicchio permette di aiutare un malato terminale a morire, se l’agonia si prolunga troppo e si percepisce che l’anima vorrebbe staccarsi dalle spoglie terrene ma non possiede la forza sufficiente per farlo.
Al di là della ritualità propiziatoria che intesse i gesti quotidiani e dei riti magici a scopo terapeutico, sopravvive un immaginario comune che affonda le proprie radici nei tempi eroici della fondazione del paese. Un immaginario che ruota intorno al mito del tesoro nascosto in qualche grotta, sotto un albero, in fondo a un pozzo, se non addirittura sotto le fondamenta stesse di una certa casa a cui si può accedere tramite una botola. Il tesoro è alla portata di tutti, ma occorrono condizioni particolari per prenderne possesso, condizioni ferree e, a volte, terribili, da rispettare comunque alla lettera. Poiché forze occulte di spaventosa potenza custodiscono questi tesori, contraddirle può essere fatale. Perciò, in alcuni casi, quando le condizioni appaiono accettabili, ci si sottopone a questo volere occulto per riuscire a “disimpegnare” il tesoro. Si racconta pertanto che il Tale ha potuto costruirsi la casa grazie a una truvatura, che il Talaltro è riuscito a comprasi un campo…. Quando le condizioni appaiono impossibili (come può essere il sacrificio di un figlio), si rinuncia preferendo di gran lunga una vita di fatiche. La credenza in tali racconti, profondamente radicata, si trasmette da una generazione all’altra. D’altronde, il mito del tesoro trovato o intoccabile esprime “la speranza di riuscire ad accumulare qualche ricchezza”2 ma soprattutto rappresenta la sublimazione dei sacrifici passati e funge in qualche modo da mito fondatore. Tali leggende sono diffuse un po’ dappertutto fra i contadini siciliani di Tunisia ma trovano a Bir Halima conferme realistiche nella citazione di nomi e luoghi precisi. Bir Halima diventa pertanto il luogo del possibile dove mito e realtà si fondono per offrire a tutti quanti un barlume di speranza nello sforzo sovrumano che vanno compiendo.

1 A distanza di più di quarant’anni dal suo dissolvimento, i vari abitanti di Bir Halima continuano ancora in qualche modo a considerarsi membri di una stessa comunità. Basta interrogarli su fatti accaduti più di sessant’anni fa e la cui verità non potrebbe più avere ripercussioni sul presente in quanto tutti i protagonisti sono scomparsi, che subito scatta l’atteggiamento reticente, come se si volessero preservare accuratamente segreti di famiglia.
2 Daniela Melfa, op. cit., p. 78.


5. Bir Halima e gli altri

Questa forte coesione identitaria viene riconosciuta in qualche modo dagli altri gruppi che, per definire gli abitanti di Bir Halima, creano il neologismo Birhalimari. Né gli abitanti di Moghrane, di Zaghouan o del Fahs godono di questo privilegio1. Mentre gli altri gruppi dei dintorni appaiono più fluidi ed aperti verso le altre comunità presenti sul territorio, elaborando in questo modo una cultura ibrida, gli abitanti di Bir Halima mantengono vivi i forti valori della loro cultura d’origine ma ciò finisce per isolarli un po’ dal resto della regione. Nonostante il loro dialetto rimanga più stretto e i modi di vivere appaiano più arcaici2, i Birhalimani sono stimati e rispettati per la rettitudine e la serietà dei loro comportamenti sociali, e non sono mai oggetto di pregiudizi al punto che i matrimoni fra loro e appartenenti a gruppi esterni si fanno con gli anni sempre più frequenti.
Con le comunità non italiane, gli abitanti di Bir Halima istituiscono più o meno gli stessi tipi di rapporti che si sono creati altrove in Tunisia. Con i Tunisini lavorano fianco a fianco quando fanno gli sterratori, poi quando le condizioni lo permettono li assumono come operai agricoli. Non tutte le famiglie però possono permettersi un dipendente, poiché variano in modo spesso evidente le condizioni economiche3.
Con i Francesi, si creano rapporti di sudditanza. Vi è un’esigua minoranza che intrattiene rapporti di lavoro: donne a servizio presso famiglie francesi, uomini dipendenti a vario titolo nelle aziende agricole locali. Naturalmente, anche la scuola e la chiesa contribuiscono a creare vincoli con la cultura dominante. Tuttavia, come lingua veicolare persiste il siciliano sia in ambito familiare che nei rapporti fra paesani mentre il francese rimane comunque un elemento estraneo nella vita quotidiana poiché rappresenta la lingua delle autorità i cui interventi i Birhalimari subiscono con lo stesso rassegnato fatalismo dei loro corregionali in Italia. Non condividono con la cultura dominante lo stesso senso della giustizia, ma accettano, pur non capendole, le leggi imposte quando si verificano, fino agli anni Trenta, fatti di sangue che regolano questioni di onore. Subiscono il sequestro dei beni nel 1943 e successivamente l’espulsione dei fascisti notori ma anche di altre persone prese a casaccio. Alcuni di loro, come due fratelli Lipuma, due fratelli Bernardi, Carmelo Longo il mugnaio, vengono spediti al campo di concentramento di Mareth e da lì direttamente a Palermo. In ogni famiglia si contano una o due persone espulse, in particolare giovani. Un bilancio decisamente pesante per una comunità avvezza alla discrezione quindi scarsamente incline ad esprimere pubblicamente i propri orientamenti, forse perché sostenuta da un’atavica indifferenza – o diffidenza - per tutto ciò che viene elaborato oltre i propri ambiti. Questi avvenimenti destabilizzano la comunità che resisterà ancora per una decina – quindicina d’anni prima della sua dissoluzione.

La decolonizzazione porta il sequestro definitivo dei beni. Ma già alcuni anni prima era cominciato l’esodo dato che fra il 1960 e il ’62, Bir Halima si spopola rapidamente. Se una minoranza, che aveva fatto la scelta della naturalizzazione, opta per la Francia, la maggioranza si rifugia in Italia, prevalentemente a Torino, ma anche in altre zone del Piemonte come Chivasso o della Liguria come Savona. Così si disperde definitivamente una comunità che, pur avendo allentato sempre più nel tempo i legami con la terra d’origine, era riuscita a ricostruire un pezzo di Sicilia in Tunisia mantenendo condizioni di vita e una cultura che si richiama in larga parte all’Europa pre-industriale. Questo breve saggio vuole essere un omaggio a tutti coloro che, nello sforzo davvero eroico di costruirsi una vita dignitosa, hanno saputo mantenere una fedeltà alla propria cultura non in modo testardo e cieco, ma come valore fondante della propria vita e strumento quindi indispensabile nell’elaborazione di nuove modalità esistenziali.

1 Solo agli abitanti di una zona rurale sita fra Draa-ben-Jouder e El Fahs viene affibbiato il nome di anzellisti, in virtù del particolare contratto agricolo che li trasforma con il tempo in piccoli proprietari. Si tratta di una piccola comunità proveniente in massima parte da Modica (RG), con caratteristiche simili a quella di Bir Halima, ma con una marcata endogamia che la rende ancora più chiusa su se stessa.
2 Ad esempio, usano un’unica portata a pasto, anziché articolarlo in primo, secondo e dessert, come ormai fanno tutti gli altri. Anche l’episodio dei corsi di tennis è significativo in questo senso. Intorno al 1955, delle signore francesi che operavano nell’ambito della chiesa decisero di organizzare corsi di tennis per le ragazze del luogo. Alcune ragazze si presentarono accompagnate dalla madre o dal padre, ma l’esperienza apparve così “rivoluzionaria” (era inaudito che delle giovani in grado di lavorare perdessero tempo a giocare!), da concludersi rapidamente per mancanza di corsiste.
3 Com’è il caso, ad esempio, della famiglia Bernardi che è riuscita con gli anni a crearsi un podere di circa 50 ettari, e della famiglia di Pietro Candela che rimane allo stato di bracciantato.  





Sono grata a molte persone che, con le loro informazioni, suggerimenti e – a volte - reticenze, hanno contribuito moltissimo ad arricchire questo mio lavoro.
Ringrazio in modo particolare Francesca e Nino Bernardi, di Bologna, che sono una fonte preziosa d’informazioni così come il dottor Giovanni Ilardi, di Torino; Berta e Jean Mulé di Tunisi, che hanno avuto la pazienza di accompagnarmi e di ripercorrere insieme i luoghi per certi versi dolorosi della memoria; Giuseppina Messina Distefano e le nostre lunghe conversazioni passate che mi hanno stimolata a intraprendere questo lavoro; Suor Mercedes per la sua pazienza; familiari e amici che hanno tutti contribuito con qualche tassello a dar voce ad una comunità altrimenti destinata all’oblio.

Marinette Pendola