Mia madre, originaria di Mazzara del Vallo, nata pure lei a Tunisi e qui vestita con un abito tradizionale tunisino
Clara Contento
I miei
nonni paterni sono arrivati, come molti italiani di Tunisi, dalla
Sicilia ai primissimi del Novecento. Il nonno Carlo era di Alcamo e
arrivò a diciassette anni; la nonna Grazia di Palermo. Ebbero tre
figli, Francesco, Giovanni e Marcello. Nel 1948 Francesco sposò mia
madre Ida, anche lei nata a Tunisi come le sue sorelle, Maria,
Silvia, Matilde, e il fratello Ignazio. Mio nonno materno Giacomo,
invece, era di Trapani e giunse a Tunisi a un anno, nel 1885; sua
moglie, nonna Carmela, nata in Tunisia a Sousse, aveva i genitori che
venivano da Pantelleria e raccontava che suo padre era arrivato a
Tunisi lo stesso giorno in cui vi sbarcavano i francesi, nel 1881.
Dal matrimonio dei miei genitori siamo nate mia sorella Silvana e io.
Dopo
l'indipendenza della Tunisia nel 1956 i nonni materni e Silvia
decisero di raggiungere Matilde, che si trovava già a Bologna.
Successivamente li seguirono la zia Maria col marito e le tre figlie,
quindi mia sorella e io. I miei genitori, invece, decisero di
restare a Tunisi dove mio padre, ingegnere, continuò a lavorare per
una ditta già francese passata in mani tunisine fino a quando morì
nel 1978. Mia madre vi rimase da sola ancora per molti anni, poi ci
raggiunse a Bologna dove, ultranovantenne, vive ancora, lucida e con
una gran bella grinta, ma con tanta nostalgia del suo paese e tanti
ricordi. Lei si che è la vera memoria storica!

La Seconda
guerra mondiale era stata molto dura per tutta la mia famiglia.
Quando finì, nel 1945, il nonno paterno venne espropriato ed espulso
dalla Tunisia assieme al secondogenito Giovanni, mentre il
terzo genito Marcello era in un campo di lavoro nel sud del paese.
Mio padre, invece, visto che lavorava per una ditta francese, poté
rimanere e con lui sua madre. Il nonno morì a Roma, col rammarico
di aver perso tutto quello che aveva realizzato durante tanti anni di
lavoro e sacrifici e di non poter più tornare a vivere a Tunisi.
Quanto a me
lasciai la Tunisia negli anni Settanta per venire a studiare
all'Università di Bologna, però il mio legame col paese non si è
mai interrotto. Abbiamo ancora la nostra vecchia casa estiva al mare
a El Kram, vicino a Cartagine, dove siamo andati in vacanza fino a
due anni fa. Purtroppo la malattia e la morte di mia sorella hanno
interrotto la tradizione di quei lunghi soggiorni estivi; ma spero di
poter riprendere al più presto le vecchie abitudini. Contrariamente
ad altri italiani che sono stati costretti a lasciare la Tunisia in
condizioni traumatiche dopo l'indipendenza, amo molto questo paese,
la gente, la cultura e ritrovo sempre con enorme piacere le mie
amiche d'infanzia tunisine. E' ovvio che la Tunisia di oggi non è
più quella degli italiani di Tunisi e a volte ci si deve mettere di
impegno per cercare di ritrovare un luogo, un ricordo; ma i rumori, i
colori e gli odori sono sempre gli stessi. Mi considero fortunata di
avere convissuto con tante etnie diverse, arabi, francesi, italiani,
ebrei, maltesi, russi, perché ciò, a mio avviso, non ha potuto che
arricchirmi e aiutarmi ad essere quella che sono oggi.

I ricordi
sono tanti, belli, meno belli, malinconici. In questo momento alcuni
mi vengono così, come dei flash in tutta libertà e potrei
condividerli con quelli della mia generazione che oggi hanno più o
meno sessant'anni. Le chiacchiere fatte alla domenica dopo la messa
delle 11 davanti alla Cattedrale di Tunisi e continuate fino al caffè
Panalex. Le acclamazioni "Aujè Bourghiba","Arriva
Bourghiba", del popolo tunisino lungo le strade di Tunisi al
passaggio del Presidente Habib Bourghiba in piedi in una Peugeot
decapottabile, bello, imponente, retto, con il fez rosso in testa.
Le donne tunisine avvolte nel loro "safseri", il velo
bianco tradizionale lungo fino alle caviglie, bloccato in vita da una
cintura interna, che erano abilissime a tener fermo attorno alla
testa senza farlo scivolare stringendo i due bordi fra i denti. I
venditori ambulanti con le loro carrette del carbone, del ghiaccio,
della verdura, della frutta, del latte, che proprio gli italiani
fermavano chiamandoli con un "Yà" per comprare la loro
merce. I "Hamèl", poveri ragazzi malmessi accovacciati
davanti all'ingresso del mercato centrale con una immensa sporta di
paglia con due manici fra le gambe, la "coffa", che si
contendevano le signore che venivano a far la spesa per poi
accompagnarle a casa con la coffa straripante di frutta, verdura,
formaggi, polli, pesce, faticosamente portata su una spalla in cambio
di una misera mancia. I carretti con i cavalli, che aspettavano con
i loro padroni dalle mani callose e sempre grondanti di sudore
davanti alla Porta di Francia che delimitava la zona europea dalla
Medina. Aspettavano che qualche cliente li chiamasse per trasportare
i mobili necessari, reti, materassi, frigoriferi e enormi TV, nelle
case prese in affitto al mare per l'estate. Le "delicieuses"
di Salem, gelati fra due wafer quadrati che scattavano fuori da una
macchinetta di metallo; i mottarelli alla fragola e panna ricoperti
di cioccolato di Cacciola; il meraviglioso "nougat",
torroncino gelato di Bebèr. Le brioches di Gervais e i cannoli di
Paparone. I "frigolo bien glacès", quadrati di gelato di
incerta provenienza ricoperti di cioccolato e avvolti in carta
argentata di diversi colori venduti sulle spiagge, che appena
scartati bisognava ingegnarsi a mangiare in fretta prima che si
sciogliessero. Le "glibettes cahouìa", brustulini e
arachidi, venduti anch'essi d'estate sulle spiagge, minuziosamente
confezionati in coni fatti con carta da giornale o vecchie pagine di
quaderno, accuratamente sistemati in ceste di vimini rotonde portate
con grande abilità sulla testa da vecchi arabi con turbante e tunica
bianca. I bomboloni, squisite frittelle di pasta con un buco al
centro ricoperte di zucchero che si acquistavano dai frittellai.

I
venditori di "cakì salés", le gallette rotonde traforate
o bastoncini salati, accovacciati davanti all'uscita delle scuole.
Le baguettes e la pizza di Memmi, così buone che non si poteva far
altro che entrare nel suo negozio arredato solo con due enormi
banconi di marmo bianco colmi di grandi teglie nere sfornate una dopo
l'altra. I "caldi caldi", pasta sfoglia salata ripiena di
ricotta e pepe, venduti dai maltesi che li tenevano in grandi scatole
riscaldate appese al collo. Gli ambulanti che passavano sotto casa
urlando "robavecchia" e speravano di fare affari
acquistando per poco cose usate. Le lunghe contrattazioni dei
"marchands la vaisselle" che in cambio di vestiti o altro
in disuso davano piatti, bicchieri, barattoli di vetro, vasi e altro.
Quante volte ho visto mia mamma ritirare due o tre volte la roba da
lei offerta prima di ottenere ciò che aveva già deciso di volere da
uno di quei poveretti. Le suore di Notre Dame de Sion de la Rue de
Hollande, dove tante di noi sono andate dalle elementari alla
maturità. La "bouzadìa", un vecchio stregone nero pieno
di amuleti e piume colorate che faceva ruotare gli occhi, danzava
accompagnandosi con un tamburo e terrorizzava i bambini mentre gli
adulti si divertivano a vedere lo spavento dei piccoli. Se ne andava
solo se gli si dava qualche moneta. Visto che da piccola ero molto
vivace, la mamma mi gridava "arriva la bouzadia" e io
correvo piena di paura sotto il letto, mentre mia madre gli lasciava
fare per un bel po' il suo show davanti al cancello di casa prima di
allungargli qualcosa. Le "deghese", beduine nei loro
vestiti coloratissimi fermati con spilloni d'argento, che passavano
per le strade con una piccola coffa in mano e si offrivano di predire
la buona ventura. E per finire il trenino bianco di legno che faceva
la spola fra Tunisi e le spiagge della costa nord.
Adesso mi
fermo perché ricordare fa molto bene, ma anche un po' male.
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